LEOPARDI POETA, APERTO ALLA TRASCENDENZA

(Da : altervista.org  il 2-1-09 : il Commento sottostante è del vescovo Alessandro Maggiolini che riprende anche Don Giussani . Titolo originale: Giacomo leopardi)

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Giacomo Leopardi (1798-1837), Il Monumento che lo ritrae a braccia conserte e in piedi ,  in mezzo a Piazza Recanati (Recanati, Macerata)

                Oltre ad essere un grande poeta, Giacomo Leopardi è stato anche un grande uomo. Attraverso le sue poesie, è possibile vedere come avesse uno sguardo molto più profondo rispetto ad altri. Iniziamo con la lettura del Canto notturno di un pastore errante dell'Asia.

 

Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,

silenziosa luna?

Sorgi la sera, e vai,

contemplando i deserti; indi ti posi.

Ancor non sei tu paga

Di riandare i sempiterni calli?

Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga

di mirar queste valli?

Somiglia alla tua vita

la vita del pastore.

Sorge in sul primo albore;

move la greggia oltre pel campo, e vede

greggi, fontane ed erbe;

poi stanco si riposa in su la sera:

altro mai non ispera.

Dimmi, o luna: a che vale

al pastor la sua vita,

la vostra vita a voi? dimmi: ove tende

questo vagar mio breve,

il tuo corso immortale?

 

                Di notte, pascolando il gregge, si trova di fronte la luna, e gli pone una domanda importantissima: che fai? Cioè, perchè ci sei? Che cos'è la realtà? Introduce la poesia ponendo queste domande alla luna, si immedesima nel pastore. Termina questa strofa ponendo un'altra domanda: che scopo ha la mia vita, che scopo hanno le cose che ho intorno?

 

Pur tu, solinga, eterna peregrina,

che sì pensosa sei, tu forse intendi,

questo viver terreno,

il patir nostro, il sospirar, che sia;

che questo sia morir, questo supremo

scolorar del sembiante,

e perir dalla terra, e venir meno

ad ogni usata, amata compagnia.

E tu certo comprendi

il perchè delle cose, e vedi il frutto

del mattin, della sera,

del tacito, infinito andar del tempo.

Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore

rida la primavera,

a chi giovi l’ardore, e che procacci

il verno co’ suoi ghiacci.

Mille cose sai tu, mille discopri,

che son celate al semplice pastore.

Spesso quand’io ti miro

star così seduta sul deserto piano,

giovinetta immortal, conosci il tutto.

Questo io conosco e sento,

che degli eterni giri,

che, in suo giro lontano, al ciel confina;

ovver con la mia greggia

seguirmi viaggiando a mano a mano;

e quando miro in cielo arder le stelle;

dico fra me pensando:

a che tante facelle?

Che fa l’aria infinita, e quel profondo

infinito seren? Che vuol dir questa

solitudine immensa? Ed io che sono?

Così meco ragiono, e della stanza

smisurata e superba,

e dell’innumerabile famiglia;

poi di tanto adoprar, di tanti moti

d’ogni celeste, ogni terrena cosa,

girando senza posa

per tornar sempre là donde son mosse;

uso alcuno, alcun frutto

indovinar non so. Ma tu per certo,

che dell’esser mio frale,

qualche bene o contento

avrà fors’altri; a me la vita è male.

 

                Leopardi vede la luna come l'unica che conosce il perchè delle cose, che può rispondere alle sue domande, che riesce a vedere il Bello. Le cose che il pastore non può scoprire: mille cose si tu, mille discopri/che son celate al semplice pastore. In questa strofa emerge il senso religioso del poeta, la sua fortissima domanda: a che tante facelle? Vedendo il cielo, vedendo le stelle, vedendo ciò che lo appassiona, Leopardi non può non chiedersi: chi sono? Alla fine della strofa, però, dice: a me la vita è male. Io non capisco nulla. Ma questa non è la conclusione della poesia:

 

O greggia mia che posi, oh te beata,

che la miseria tua, credo, non sai!

Quanta invidia ti porto!

Non sol perchè d’affanno quasi libera vai;

ch’ogni stento, ogni danno,

ogni estremo timor subito scordi;

ma più perchè giammai tedio non provi.

Quando tu siedi all’ombra, sovra l’erbe,

tu se’ quieta e contenta;

e gran parte dell’anno

senza noia consumi in quello stato.

Ed io pur seggo sovra l’erbe, all’ombra,

ed un fastidio m’ingombra


 

la mente, ed uno spron quasi mi punge

si che, sedendo, più che mai son lunge

da trovar pace o loco.

E pur nulla non bramo,

e non ho fino a qui cagion di pianto.

Quel che tu goda o quanto,

non so già dir, ma fortunata sei.

Ed io godo ancor poco,

o greggia mia, nè di sol ciò mi lagno.

Se tu parlar sapessi, io chiederei:

dimmi: perchè giacendo

a bell’agio, ozioso,

s’appaga ogni animale;

me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale?

 

                Qui Leopardi fa un passaggio successivo. Invece di rivolgere le sue domande alla luna, le rivolge al gregge, la cosa che ha più vicina e concreta. E fa un confronto: mentre il desiderio del gregge è piccolo e appagato, il poeta ha un’angoscia interiore: dimmi: perchè giacendo/a bell’agio, ozioso,/s’appaga ogni animale;/me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale? Questa domanda è essenziale: perchè l’animale è soddisfatto da ciò che ha, mentre io, nelle stesse condizioni, sono assalito dalla noia? Questa è la grandezza dell’uomo: le domande del cuore, il tendere sempre a qualcosa di più grande.

 

Forse s’avess’io l’ale

da volar su le nubi,

e noverar le stelle ad una ad una,

o come il tuono errar di giogo in giogo,

più felice sarei, dolce mia greggia,

più felice sarei, candida luna.

O forse erra dal vero,

mirando all’altrui sorte, il mio pensiero:

forse in qual forma, in quale

stato che sia, dentro covile o cuna,

è funesto a chi nasce il dì natale

                                                                                                                                                       In conclusione della poesia, Leopardi lascia trasparire la sua speranza: se riuscissi a volare nel cielo, sarei più felice. Una possibilità di felicità esiste: cercare qualcosa di più grande di noi, la realizzazione dei nostri desideri.

                In Alla sua donna, Leopardi scrive:

 

Già sul novello

aprir di mia giornata incerta e bruna,

te viatrice in quest’arido suolo

io mi pensai. Ma non è cosa in terra

che ti somigli; e s’anco pari alcuna

ti fosse al volto, agli atti, alla favella

saria, così conforme, assai men bella

 

                Leopardi vede la bellezza della sua donna, ma intuisce anche che essa non è altro che il riflesso di qualcosa di più bello che non ha paragoni sulla terra. Tutte le cose possono essere solo un “assaggio” di quello cui siamo destinati. Questa poesia termina con queste strofe:

 

Se dell’eterne idee

l’una sei tu, cui di sensibil forma

sdegni l’eterno senno esser vestita,

e fra caduche spoglie

provar gli affanni di funerea vita;

o s’altra terra ne’ superni giri

fra’ mondi innumerabili t’accoglie,

e più vaga del Sol prossima stella

t’irraggia, e più benigno etere spiri;

di qua dove son gli anni infausti e brevi,

questo d’ignoto amante inno ricevi.

                In questi versi, Leopardi esprime il suo desiderio che la Bellezza non sia solo una bella idea, ma sia qualcosa di concreto, toccabile.

 

                Termino riportando un brano di un commento di don Luigi Giussani:

 

                ‹‹Leopardi stende il suo inno non a questa o a quella donna, non a una delle tante donne di cui si era innamorato, ma alla Donna, col D maiuscolo, alla Bellezza, col B maiuscolo. È l’inno a quella amorosa idea che ogni donna gli suscitava dentro: idea amorosa che è intuita come una presenza reale.

 

                È stato rileggendo questo brano che, quando avevo quindici anni, mi si è illuminato improvvisamente tutto Leopardi, perché questa è una sublime preghiera. Mi sono detto: che cosa è questa Bellezza col B maiuscolo, la Donna col D maiuscolo? È quel che il cristianesimo chiama Verbo, cioè Dio. La Bellezza col B maiuscolo, la Giustizia col G maiuscolo, la Bontà col B maiuscolo, è Dio.

 

               Questo è anche il messaggio cristiano: la Bellezza è diventata carne e ha provato fra caduche spoglie [...] gli affanni di funerea vita.

 

                In effetti, il messaggio cristiano è proprio in questa strofa di Leopardi.

 

                Il messaggio di Leopardi è, dunque, potentemente positivo, obiettivamente e non per una forzatura di me credente. È, infatti, esaltante, perché, essendo espressione del genio, non può essere che profezia.›› (Luigi Giussani, Le mie Letture)

 

Alessandro Maggiolini

 

 

 

FINE

 

 

 

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