LETTERE AGLI UOMINI DI PAPA CELESTINO VI° : AL POPOLO CHE SI CHIAMA CRISTIANO

(Da: G. Papini, Lettere agli uomini del Papa Celestino VI°, Firenze, Vallecchi 1946  -?-, p.11)

21-6-06

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 Miei fratelli, miei figlioli,

 

                non posso piu tacere. Ho atteso anche troppo. L'infinito dolore del mondo si raggruma e fermenta nella mia anima di padre, vuole che la mia voce sia la sua voce. Se non parla colui che rappresenta Cristo sulla terra, chi dunque   parlerà?

                Molti mormorano, sussurrano, gridano, contendono, sillogizzano e delirano ma da nessuna parte odo levarsi una parola che sfavilli dalla pura luce dello spirito, che sgorghi dal sangue caldo del cuore.

                Ho atteso anche troppo. Arrossisco di avere indugiato fino a questo giorno. Il peso della vecchiezza, il patema dell'angoscia, gl'intoppi della troppo umana prudenza, le remore di quella ragione che in tempi di Apocalisse è mera imbecillità agli occhi di Dio, il timore d'esser misinteso, non bastano a scusare il mio indugio. Ho sofferto e soffro, atrocemente ho patito e patisco dell'atroce passione degli uomini. Le mie notti non conoscono quasi più sonno, i miei giorni hanno dimenticato la fame, le mie labbra ignorano il sorriso. Nel silenzio del mio palazzo ho ascoltato fremendo i sospiri, i gemiti, i singulti, i singhiozzi, gli stridi e anche le bestemmie di tutti gl'infelici martoriati percossi e moribondi su tutte le terre e su tutti i mari. Ma che giovano ai dilaniati, agli amputati, ai dispogliati, agli avvelenati, ai disperati sopravvissuti le quotidiane lagrime del mio pianto solitario ?

                 L 'umanità tutta è sconvolta, travolta, dissolta, quasi capovolta e sepolta. E il viceré, benche indegno, di Colui che fu dissanguato per liberarla, dovrebbe tacere? Io non sono ormai che una povera macchina d'ossa ricoperta da scarsa carne e da vizza pelle, non ho altro patrimonio che un cuore sanguinante, non ho altre armi che il mio baculo fragile di pastore e la mia voce affiochita dagli anni e dagli affanni. Ma ho l'obbligo di parlare, ho il diritto di parlare e parlerò. Parlerò a voi, prima di tutto, a voi che vi chiamate e vi credete cristiani, ma parlerò anche a tutti gli uomini, anche a quelli che non riconoscono la mia dignità di Vicario di Cristo, anche a quelli che ignorano e negano il nostro Dio. Parlerò alto e forte come il il Padre m'ispira, come il Figlio m'insegna, come lo Spirito mi comanda, come la carità, la pietà, l'ansietà mi sforzeranno. Vorrei che le mie parole avessero la soavità della brezza mattinale di maggio ma, quando occorra, la potenza dei tuoni notturni tra le muraglie dei monti ; vorrei che scendessero nelle anime come dolci gocce resuscitanti, ma restassero incise nelle memorie con caratteri di fiamma.

                Come uomo non sono, lo so, che un debole uomo fra gli uomini; unito a Dio sarò un gigante capace di far sentire lo squillo della sua passione fino agli ultimi confini del pianeta.

                Voi sapete, cristiani, qual sia oggi lo strazio e il martirio dell'umana famiglia.

                Da lunghi anni la nostra specie è posseduta da rabidi accessi di furore suicida, con sbalzi alterni di forsennata distruzione e di accasciata disperazione. L'uomo sembra un titano muggente e fuggente ravvolto nella tunica fìammante del Centauro. Ha fatto un immenso e orrendo lavacro di sangue ma neppur questa rossa alluvione ha potuto spengere il fuoco che l'abbrucia.

                Guerre, rivoluzioni, disfatte, pestilenze, fame di dominio, di stragi e di pane hanno decimato l'umanità senza riuscire a guarirla. Più d'una volta, sulla strada sanguinosa e melmosa della storia, vi furono uomini che credettero sentire lo scalpitio dei cavalli dell' Apocalisse. Ma in nessun momento, io credo, la bocca del cavallo della morte fu così prossima a pascere l'erba pallida cresciuta sulle rovine. Dei tre diluvi necessari alla terra, manca soltanto l'ultimo. Il primo, del Padre, fu il diluvio dell'acqua castigante; il secondo, del Figlio, fu di sangue purificante; il terzo, dello Spirito Santo, sarà di fuoco. L' abbiamo già visto scender dal cielo il fuoco diroccante e consumante; attendiamo ora il fuoco dello Spirito salvante e sublimante. Ma  l'umanità, nell ' attesa, non è che un 'inferma esterrefatta e smaniosa, coperta dalle pustole della vergogna, dall'ulceri degli orrori, dal polverone delle catastrofi, dulle lividure dei supplizi, dal mantello mal rappezzato della       discordia.

                 Milioni di cadaveri si disfanno sotto il grassume dei campi di battaglia o negli invisibili ossari delle vallate marine; milioni di uccisi si stanno putrefacendo sotto le macerie o dentro improvvisate fosse; milioni di vittime della fame, delle torture, dei contagi sono scese anzi tempo a nutrire i vermi ; milioni di prigionieri son rinchiusi, come armenti senza nome, dentro recinti di pietra e di ferro; milioni di schiavi, lontani da tutto quello che amarono, pagano con le sforzate forze l' avaro pane straniero; milioni di fuggiaschi ramingano ancora, umiliati e incalzati, in cerca d'un tetto distrutto e d'un desco deserto; milioni di orfani, di vedove, di padri e di madri attendono invano coloro che mai torneranno; milioni di famelici combattono ogni giorno una loro avvilente battaglia, non sempre vittoriosa, contro la morte; milioni di violenti predaci approfittano dell'universale disordine per accrescere la miseria dei miseri e il terrore degli atterriti; milioni di donne si prostituiscono o si avviliscono nel supplizio dell'indigenza e dell'assenza; milioni di cuori si stemprano o s'impietrano sotto le percosse dell'angoscia e della nostalgia; milioni di anime sono avvelenate dal ruminio dell'odio, dallo stillicidio dei rancori, dagli impulsi della vendetta; milioni di anime sono intenebrate nello smarrimento dell'impossibile pace; milioni di anime hanno perduto o stanno perdendo ogni fede nella giustizia di Dio e nell'umanità degli uomini.

                Alle guerre guerreggiate dagli eserciti son seguite le guerre dei ribelli e dei disperati contro tutto e contro tutti, contro se stessi e contro il destino; le guerre civili fra figli d'una stessa patria; le guerre delle fazioni, delle parole, delle accuse, delle minacce.

                S'è dissipato il fumo delle battaglie ma per meglio scoprire il lugubre spettacolo delle rovine; s'è affievolita la furia del fuoco ma si levano ancora nel cielo i tronconi neri che furon morsi dagli incendi; tace, ormai il clangore e la romba dell'immane sterminio ma si odon più forti le voci della desolazione, della rivolta, della pazzia.

                Infinite case degli uomini son divenute sassaie e serpai; infinite ricchezze furono sperperate, disperse, sottratte, distrutte; città famose e villaggi remoti son mucchi di sfasciumi, di ceneri, di sozzure; le chiese furon ridotte a  macereti o a latrine; le scuole a carceri o caserme; monumenti gloriosi non sono ormai che reliquie mozze d'una sventratura barbarica. Un terzo almeno del genere umano è oggi senza ricovero sicuro e senza cibo bastante, senza amore e senza onore, senza forza e senza speranza.

                I flagelli nell ' ordine della materia, benché innumeri e tremendi, sono presso che nulla in confronto a quelli che scardinano l'ordine dello spirito.

                La fede nella Redenzione vacilla anche nei piu intrepidi; le moltitudini, dimenticando gli errori e i peccati di tutti, insorgono contro Dio che permette tante sciagure o percuote con tanti castighi; la carità vien meno in molti, sia che li spaventi la somma immensa dei mali, sia che restino interdetti dalla diaccezza caparbia dei cuori, sia che li raggeli la cresciuta ferocia degli animi. Perfin la ragione -vanto supremo dell 'uomo- sembra sopraffatta dai deliramenti delle febbri, infoscata dalle allucinazioni delle frenesie. Non più le menti dettano gli umani discorsi ma i visceri inferiori. Parlano, nei più, i borborigmi del ventre, le coliche del fegato, i furori dell'utero, i ribollimenti del sangue.

                Parlan soltanto le passioni e le brame della carne, gli interessi della classe e della casta, l'amor di parte e di razza. Il linguaggio pensato e pesato è divenuto eruttazione di manie, espettorazione di risentimenti. Gli uomini si uniscono soltanto nell'imprese dell'odio e nelle gesta della morte. In tutto il resto son divisi, separati, avversi, nemici; continente contro continente, fede contro fede, nazione contro nazione, tribù contro tribù, uomo contro uomo.

                Non v'è più freno di coscienza ne diga di legge. Chi ha la forza ruba, chi ha l'armi uccide, chi è sicuro dell'impunità ladroneggia e ammazza. Non v'è altra norma che il tornaconto, altro idolo che il denaro, altra morale che quella dei lupi, altro codice che quello degli avvoltoi.

                Anche nei paesi nostri che si dicon cristiani non regna ormai più, e da gran tempo, la dottrina dell'Evangelo, ma una dottrina luciferiana che nessuno ha osato esporre apertamente in dettami e comandamenti benché da tutti sia praticata con arrogante docilità. Tale religione occulta non ardisce dire il suo nome: sappiate che si chiama Arimanismo. Anch'essa possiede, come la nostra, una veneratissima trinità: Moloch, Mammona, Priapo. Alcuni vi aggiungono una quarta persona, Belfagor, il demonio della confusione intellettuale.

                Nonostante il suo incontestato trionfo l'Arimanismo non procura ai suoi fedeli la felicità. Per la sua stessa origine satanica si risolve in un paradosso che, attraverso la beffa, culmina in tragedia.

                Gli uomini desiderano godere e per più godere si fan guerra e le guerre, esteriori o intestine, accrescono indicibilmente il soffrire.

                Gli uomini vogliono arricchire e con la speranza di arricchire si fan guerra e nella guerra distruggono le ricchezze possedute e si condannano a più dura miseria.

                Gli uomini vogliono dominare e per la brama di maggior dominio si fanno guerra ma le necessità della guerra accrescono la schiavitù, già grave, di tutti i cittadini, la schiavitù dei vittoriosi non meno che quella dei vinti. 

                Dicono allora di voler la pace, la pace per tutti, la pace per sempre, ma i potenti, per imporre questa pace, altro non sanno fare che armarsi sempre più, non sanno che minacciare nuove e più orribili guerre.

                Tale è lo spaventoso contrappasso dell' Arimanismo, che trova mille conferme nella storia dei nostri giorni. I popoli che volevan più abbondanza di pasti son ridotti alla fame, i popoli che volevan primeggiare son ricacciati all'ultimo posto, i popoli che s'illudono di aver vinto scoprono d'esser meno liberi, meno ricchi, meno potenti di prima.

                L'ontoso e ruinoso fallimento dell' Arimanismo dimostra, al lume della verità dei fatti, qual sia la causa prima dell'agonia del genere umano: il rinnegamento e il tradimento dell'Evangelo. Non v'è bisogno di proclamare a suon di parole la superiorità del Cristianesimo, non è neppur necessario credere, come noi crediamo, alla sua origine divina. La storia, per tutti palmare e visibile, ha pronunziato il suo giudizio, ha fornito la più irrecusabile riprova. Gli uomini non hanno accettato i comandamenti di Cristo, hanno operato all'incontrario di quel che l'Evangelo insegna, hanno rifiutato la fraternità, l'umiltà e la carità. E così facendo son giunti alla distruzione, alla derelizione, all'esasperazione, alla disperazione. Ogni altra prova, per il momento, è superflua. La realtà, non la dogmatica, ha parlato e parla con lucidità perentoria. Più vi allontanate da Cristo e più vi approssimate all'abisso.

                L'uomo ama troppo sé e non ama abbastanza i suoi simili. Il Cristianesimo ha tentato di capovolgere l'umana natura, ha consigliato il disprezzo di sé e l'amore verso i nemici. Chiedeva troppo, forse, ma la divina sapienza sapeva che bisogna mirare alla vetta della più alta montagna per raggiungere almeno l'altipiano della collina. Sarebbe bastato diminuire, anche di poco, l'amore di sé; sarebbe bastato diminuire, anche di poco, l'odio verso i nemici: la vita avrebbe preso un altro aspetto, un altro senso, un altro colore. Se non la beatitudine dei santi gli uomini avrebbero raggiunto la pace degli amici. Il mondo non sarebbe ora tanto rosso di sangue, tanto nero di fumo, tanto piagato di rovine, tanto riarso di dolore, tanto sconvolto dal disordine, tanto infognato nella pazzia, tanto povero di speranza, tanto minacciato dal     dissolvimento e dall'annientamento. Il rifiuto di Cristo l'ha condotto al rifiuto della gioia, alle soglie della catastrofe. Non potrà salvarsi che andando a Cristo. I non cristiani debbono diventar cristiani; ma per far ciò è necessario che i cristiani divengano ciò che ora non sono, cioè veri cristiani. E allora soltanto avremo l'unità spirituale degli uomini, la concordia dei cuori, la pace del mondo.

                Trasformarsi per unirsi : questo, oggi, dev'essere il nostro motto e il nostro compito; questo, a dispetto di tutti gli errori, è il termine della mia speranza.

                Di questo abbandono dell'Evangelo chi ha colpa ? Di tutti è la colpa ma in particolar modo di coloro che si dicono e si credono cristiani. La responsabilità massima è la nostra, di quelli che si proclamarono seguaci di Cristo e si vantarono d'esser salvati dal suo battesimo d'acqua e di sangue.

                Miei fratelli, miei figlioli, io non vorrei essere ingiusto verso di voi. Dio conosce il mio affanno e il mio amore di padre. Ma è giunta l'ora di confessare il nostro peccato, la nostra insufficienza, la nostra diserzione. Noi viviamo troppo agiatamente placidi dietro le pareti di pietra della nostra Chiesa. Noi crediamo troppo volentieri  -per ignoranza ed accidia-  che basti ascoltare la messa, seguire la sacra liturgia, fare ogni tanto un simulacro di penitenza, posare un soldo sulla palma del povero, rispettare, per paura della carcere e dell'inferno, tre o quattro comandamenti.

               Vi dico, in verità, che Dio chiede a noi, a noi cristiani, molto di più, infinitamente di più. Vi ripeto che questo nostro Cristianesimo di forma, di abitudine e di convenienza non è il vero Cristianesimo ma un' ombra, una maschera, un feto e un aborto del Cristianesimo, un Cristianesimo di pusilli, d'infingardi, di tiepidi, d'ipocriti, di farisei battezzati.

                Dio vuol da noi assai di più. Vuol cristiano tutto il nostro cuore, cristiano ogni pensiero, cristiana tutta la vita. Il Cristianesimo non sarà valido e trionfante finché non avrà conquistato tutti i popoli, tutti gli uomini; finché non avrà fondato l'unità di tutti gli spiriti e di tutti i viventi. Noi abbiamo dimenticato che Cristo ci mandò alla conquista di tutte le genti, che il regno dei cieli non potrà trasformare la terra finché tutte le anime non riconosceranno la Sua verità, non praticheranno la Sua carità. Tutto il Cristianesimo dev'esser creduto, sentito, sofferto, vissuto da tutti gli uomini: Dio non tollera né spartizioni né tare. Siamo troppo pochi, nel mondo, e quei pochi sono, spesso, che crisalidi o contraffatture di cristiani. Il Cristianesimo, fin qui, fu predicato più che attuato, fu nome più che sostanza, facciata più che edificio, insegna più che vittoria. Per quanto Cristo sia stato ucciso da secoli noi siamo, in verità, i primi cristiani, abbozzi e apprendisti cristiani, cristiani di nome e di desiderio, cristiani inconvertiti, imbozzacchiti e inadempienti,

                Pensate, fratelli, che appena la quarta parte dell'umanità è ascritta -per censimento assai più che per sentimento-  al Cristianesimo e che neppur questa quarta parte è concorde sotto un solo pastore ma frantumata in più chiese, sette e comunioni.

                Siamo pochi e siamo divisi, siamo pochi e siamo neghittosi, siamo pochi e siamo pavidi. Viviamo come greggi stracchi negli ovili aggrigiati delle parrocchie, vegliate dai campanili domestici. Dio ci ordinò di portare a Lui tutti gli uomini e noi ci balocchiamo colle magre statistiche dei battezzati dove l'anime di fuoco son più rare che le perle nelle conchiglie dell'oceano.

                La Chiesa di Pietro, la Chiesa di Roma, la Chiesa da me governata, si chiama cattolica, cioè universale, ma conta forse la metà dei cristiani che vivono sulla terra. Noi abbiamo l'illusione d' essere un esercito vittorioso e in verità non siamo che una sparuta avanguardia accerchiata, dove abbondano i mutilati, gl'infermi, gl'inetti, i claudicanti, gli orbi, gli inutili. S'io scrutassi con occhio trafiggente fin dentro i vostri precordi quante anime troverei degne del nome di cristiane? Se domani si scatenasse contro di noi una persecuzione più crudele di quelle di Decio e Diocleziano, quanti di noi rimarrebbero al mio fianco, pronti a sottoscrivere col loro sangue la fede nel sangue del Redentore?

                Non crediate ch'io voglia addossare a voi tutti la colpa ch'ebbe ormai un principio di espiazione. Non avrei il diritto di rampognarvi se non prendessi anche sulle mie spalle di sacerdote e di pontefice la mia soma di pentimento, se non fossi pronto a riconoscere e confessare le carenze gravi della mia Chiesa. La Chiesa Romana, appunto perché l'unica legittima, avrebbe dovuto rivolgere ogni sua possa all'impossessamento e illuminamento totale degli uomini. L'ha tentato, soprattutto in certe felici stagioni della sua storia, ma non l'ha fatto abbastanza. S'è curata della sua esistenza temporale, dei suoi ordinamenti interni, della sua corazza teologica, della sicurtà dei suoi famuli, dell'obbedienza dei suoi fedeli: cure necessarie ma subordinate ad altre ancor più vitali. Troppo spesso fu irretita dai calcoli dei potenti invece di consacrarsi tutta al riscatto degli umili, al ridestamento dei torpidi, all'annessione dei separati, alla ralluminatura dei mal veggenti. Per difendersi   contro le potestà secolari, per proteggersi contro la protervia degli eretici, per mantenere la disciplina dei sudditi, per sostenere la sua  sovranità quasi cesarea ha rallentato il suo impulso, ha voluto innestare con la politica la sua missione tutta spirituale, parve ridotta spesso a un governo di comuni e monosteri, alla semplice somministrazione dei sacramenti, alla diligente manutenzione di un monumento di uffici popolato di scribi. La Chiesa s'è trasformata, un po' a causa dei suoi assaltatori, un po' per colpa dei suoi presidiatori, in un fortilizio dottrinale, disciplinare e liturgico. Era necessario che così avvenisse ma sarebbe pur necessario che fosse sempre, come Cristo voleva, anche un esercito di nomadi invasori e conquistatori. Ha innalzato una meravigliosa e gigantesca basilica, ammirata anche dai suoi nemici, ma di muraglie così spesse, di contrafforti così fitti, di guglie così esili e fragili, di labirinti così intricati che non sempre vi giunge il libero soffio dei venti, non sempre vi penetra il caldo messaggio del sole. Ha salvato, a forza di tanti palvesi e bastioni, la fiamma dell'Evangelo ma l'ha quasi celata in fondo alle sue cripte, e non tutti la vedono; non tutti ne sentono il calore, non tutti possono e vogliono esserne illuminati e incendiati. Dio aveva voluto che fosse un rogo in cima a un monte e noi l'abbiamo distribuita, quella fiamma divina, in tanti lucignoli che fumigano e scoppiettano in fondo alle solenni e vetuste navate dove i più non accorrono. La Chiesa racchiude, sì, Cristo e il suo verbo, ma poté sembrare, a quelli di fuori, che lo racchiuda come una pergamena aggrinzita conserva in caratteri sbiaditi le parole che dovrebbero invece splendere su tutte le cime e in tutte le menti.

                 Non dimentico le innumerevoli opere di carità corporale e spirituale che la nostra Chiesa conta e vanta. Ma la maggior parte di tali provvidenze e istituti ebber vita dalle ispirazioni dei Santi, dalla tenacia degli Ordini, dalla liberalità dei Laici. I capi della Chiesa le approvarono, quelle opere, ma non le crearono.

                 Neppur dimentico la protezione data agli studi e alle arti, che non disdice alla Chiesa perché tutto quel che nel mondo è vero e bello è, per naturale e divino diritto, cristiano. Ma la Chiesa, da secoli, non è più capace di associare a se le forze più vive dello spirito creatore, sia del pensiero sia dell'arte. Da troppo tempo si contenta di architetti, pittori, scultori e scrittori che posseggono tutto -buoni principi, buoni costumi, buoni diplomi-  tutto, fuor che il genio.

                Il principal vanto del Pontificato Romano non può ridursi all'allevamento dei mecenati, alla stesura delle bolle, al registro dei decreti. Questa Sede Apostolica è la più alta autorità spirituale che la terra abbia conosciuto ma tutta la sua forza consiste nella fedeltà al compito che Dio le affidò: condurre e far vivere tutti gli uomini nello spirito dell'Evangelo. Tutto il resto, per quanto possa sembrar laudabile ad occhi mondani, è fuorviamento e abbassamento. La politica e l'amministrazione possono essere, per contingenze di tempi e di genti, necessarie anche alla Chiesa ma in quel modo medesimo che all'uomo è necessario masticare il cibo o abbassar le palpebre nel sonno. Necessità ma necessità che umiliano chi vive per lo spirito. La grandezza dell'uomo non consiste nei pasti e nei sonni, tant'è vero che i santi riducono quant'è possibile gli uni e gli altri. Il sommo reggitore della Chiesa non dev'essere, se vuol imitare colui che rappresenta quaggiù, che un insonne pastore e conquistatore di anime.

                La più valida politica della Chiesa consiste nel far migliori gli uomini, cioè quelli stessi che si dedicano o soggiacciono alla politica. La storia esibisce, a chi la sa leggere, chiarissime conferme. Tutte le volte che la nave di Pietro s'è impelagata e impegolata più del bisogno nelle basse lagune della cosa pubblica poco ha giovato ai popoli e non poco ha nociuto alla coesione e alla fervenza dei fedeli. Tanto più grande sarà la sua influenza sulla politica quanto più saprà mantenersi al di fuori e al si sopra della politica.

                Vi furono tra i papi alcune delle più alte anime che il cristianesimo abbia acceso e nutrito ma ancor più numerosi furono quelli che non si mostrarono abbastanza consapevoli della soprannaturale destinazione della Chiesa. Troppe volte i Pontefici, invece che Vicari del Dio eternamente spirante ed ispiratore, furono i semplici continuatori di quel troppo umano Pietro che voleva rizar la tenda sul monte della Trasfigurazione, non di quel Pietro impetuoso e generoso che primo riconobbe nel profeta senza casa il Figlio di Dio, ma di quel Pietro che ebbe bisogna dello sguardo del catturato e del canto del gallo per ritrovare se stesso, di quel Pietro che non seppe vegliare l'ultima notte nell'Orto degli Ulivi e alzò l'inutile spada contro un attore in sottordine del dramma della Redenzione.

               Troppo spesso il papato fu schiavo: schiavo dei barbari, schiavo degli imperatori,  schiavo della ragion di Stato, ch'è somma pazzia nell'ordine spirituale, schiavo dell'ambizione terrena, della vanità del fasto, schiavo dei patrizi usurpatori o delle plebi mercantili, schiavo dei suoi protettori e dei suoi servitori, schiavo della diplomazia e della delagogia, schiavo insomma della sua umana innateriazione. I Papi avrebbero dovitop essere soltanto terstimoni della Divinità i,paziente, capitani ardimentosi per la conquista delle nazioni, difensori eroici dei poveri, dei perseguitati e dei piangenti; furono troppe volte sovrani ammantati di gelida maestà, sorveglianti nominali di congregazioni scrittorie, custodi gelosi della lettera più che martiri temerari dello spirito. Eran chiamati ad essere i viceré di Dio e si contentarono, talvolta , di essere i placidi padroni di un gregge ereditato e alla meglio addomesticato, guardiani prudenziali di un mediocre status quo . A voi, cristiani, chiedo perdono per loro.

                E anch'io debbo chiedervi, con umiltà verace, perdono. So d'essere il vostro capo e non ignoro la sovrumana altezza della mia dignità. Ma sono stato anch'io se non proprio servo disutile, servo tardo e timido dei disegni dell'Altissimo. S'Egli mi ha posto quassù in tempi così uraganosi per l'uomo e per la Cristianità, è segno che da me attendeva più che da tutti gli altri. Ma se ripercorro i lunghi anni del mio pontificato, tristezze e dubbiezze mi turbano. Ho molto pregato ma non ho saputo moltiplicare il popolo che mi fu confidato. Ho posto la mia causa nella sacra sapienza antica ma non ho saputo scegliere, tra i vivi, quelli che più ,silenziosamente e candidamente ardevano. Ho ricercato la santità nella solitudine ma non ho saputo abbandonar sempre le dolcezze della contemplazione per gli aspri spineti dell'azione. Ho patito dei patimenti degli uomini, ho sofferto, ho pianto, ho sanguinato dinanzi al diluvio di sventure che oggi sommerge il mondo ma non ho saputo trovare fino a questo giorno il pane che un Vicario di Cristo deve dare alla fame delle turbe vaganti nei deserti dell'aridezza e del dolore.

              Sono ormai vecchio cadente e consunto, ma non voglio cercare nelle umane debolezze l' alibi e l'assoluzione della mia porzione di colpa. Chiedo la vostra pietà non la vostra lode.

              Tutto non è ancora compiuto. Prima di presentarmi, col peso della mia miseria, al giudizio dell'ultimo Giudice, voglio fare un ultimo tentativo, compiere un ultimo dovere. Mi resta ancora un cuore che palpita per le sorti del genere umano, mi resta ancora una voce che ha il diritto di rammentare a tutti la verità, mi resta una disperata sete di giustizia, una bramosia infinita di amore. Dalle ceneri del mio strazio e del mio rimorso parlerò a tutti i viventi. ai prossimi e ai lontani, a chi desidera di ascoltarmi e a chi mi schernisce o mi sfugge.

               Non mi resta che il fuoco vivo della mia fede e il fuoco divorante del mio dolore. Cristo mi aiuterà perché il mio grido giunga alle anime che vorrei salvare con le mie parole e col mio sangue.

 

Celestino VI° Papa , Servo dei Servi m Dio.

 

FINE

 

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