SILVIO PELLICO E PIERO MARONCELLI : DUE UOMINI ESEMPLARI DA LE MIE PRIGIONI

( Da :  SantaMariadelSasso.it , il 31-10-09   - Domenicani, Storia, marzo.aprile 2009, n.2-   : Titolo originale : Imparando dalla Storia. Due Uomini esemplari da "Le Mie Prigioni" )

VAI IN FONDO

Finestra sulla Letteratura

HOME

VAI IN FONDO

Silvio Pellico 1) , Patriota, Scrittore, Tragediografo, Poeta,

(Saluzzo -Cuneo- ,  25 giugno 1789 / Torino, 31 gennaio 1854)

Saluzzo , Scorcio di :  Paese natale di Silvio Pellico
               

                Il lettore ricorderà che, con un certo stupore, scoprimmo una “Vita di S.Vincenzo Ferrer” scritta in versi dall’insospettabile commediografo Goldoni, mentre il Carducci esaltò in una delle sue opere la figura del nostro Savonarola.

                Oggi, avendo ripreso in mano il memoriale di Silvio Pellico 1) , “Le mie prigioni”, restiamo affascinati dalla personalità cristiana dello stesso Pellico e da quella di Piero Maroncelli.

                Non si tratta di gente elencata nel calendario cattolico, eppure la vita e le opere di entrambi si ispirano non solo a una bontà naturale ma agli insegnamenti del Vangelo. In breve, vi sono descritte le vicende che portarono Silvio Pellico a patire quasi vent’anni di carcere duro, dai famigerati “Piombi” di Venezia, alla prigione detta di “Santa Margherita” di Milano, e a quella ricavata dalla fortezza dello Spielberg, presso la cittadina di Brno in Moravia.

                Aderendo agli ideali della nascente Carboneria (che nulla aveva a che fare con la Massoneria moderna), fu arrestato verso la fine del 1820. Nell’introduzione biografica preparata dal Maroncelli, leggiamo che gran parte delle virtù di Silvio provenivano da un ininterrotto esempio di carità evangelica verso il prossimo (“e il prossimo non era il solo cristiano ma ogni uomo, e soprattutto ogni infelice”) della mamma. “Ecco a quale scuola l’anima di Silvio poté formarsi; e l’animo di lui quando parla di sua madre è un inno incarnato e vivente di adorazione verso Dio nelle sue creature”.

                Dopo un’infanzia in cui passò da un’infermità all’altra, ecco proseguire gli studi a Torino dove suo padre era stato chiamato a fungere da segretario del marchese Caprara di Bologna. Arrestato il 13 ottobre del 1820, fu condotto al commissariato di polizia e gli vennero tolti i libri della ricca biblioteca, lasciandogli solo la “Bibbia” e la “Divina Commedia”. I secondini lo risvegliavano intorno alla mezzanotte, per le periodiche visite di controllo. Egli riempiva le giornate con assidue letture.

                Ecco lo stesso Pellico: “Un giorno avendo letto che bisogna pregare incessantemente e che il vero pregare non è borbottare molte parole a guisa dei pagani, ma adorar Dio con semplicità facendo sempre in tutto il suo santo volere, mi proposi di cominciare davvero quest’incessante preghiera: cioè di non permettermi più neppure un pensiero che non fosse animato dal desiderio di conformarmi ai decreti di Dio”.

                Basterebbe il proposito di pregare vivendo e di vivere pregando per appartenere “ad honorem” alla grande Famiglia ideata da Domenico di Guzmàn, che si riassume nel “contemplari et contemplata aliis tradere”.

                Fece amicizia con il figlioletto di uno dei secondini, un fanciullo sordomuto, che si sedeva davanti alla finestra della sua cella e faceva colazione con qualche pezzo di pane che Silvio gli gettava. Il ragazzetto faceva salti di gioia “esprimendo la sua gratitudine col sorriso de’ suoi begli occhi”. E prosegue lo scrittore: “Una volta un secondino permise al fanciullo d’entrare nella mia prigione: questi, appena entrato, corse ad abbracciarmi le gambe emettendo un grido di gioia. Lo presi tra le braccia, ed è indicibile il trasporto con cui mi colmava di carezze. Quanto amore in quella cara animetta! Non ho mai saputo il suo nome. Egli stesso non sapeva d’averne uno. Era sempre lieto e non l’ho mai veduto piangere, se non una volta che fu battuto, non so perché, dal carceriere”. Poi il Pellico fu cambiato di cella, ed egli non poté più conversare col mutolino. “Durante il tragitto, egli mi vide, mi corse incontro e io, sudicetto com’era, lo baciai e ribaciai con tenerezza, e mi staccai da lui - debbo dirlo? - con gli occhi grondanti di lacrime!”.

                Sfogliando “Le mie prigioni” scopriamo il suo amore per gli animali (“vedendo alcune formiche che venivano sulla mia finestra, le cibai abbondantemente; quelle andarono a chiamare un esercito di compagne, e presto la finestra fu piena di simili animali. Diedi ancora retta a un bel ragno che tappezzava una delle mie pareti. Lo cibai con moscerini, e quegli mi divenne amico sino a venirmi presso il letto e fin sulla mano, a prendere le prede dalle mie dita”.

                Con l’arrivo dell’estate veneziana però si presentarono le zanzare “in tale moltitudine che, per quanto io m’agitassi, ne era coperto il letto, il tavolino, la sedia, il suolo, le pareti, la volta, tutto n’era coperto, e l’ambiente ne conteneva infinite, sempre andanti e venienti attraverso la finestra, e facevano un ronzio infernale”. Le punture di quegli animali sono dolorose, e quando se ne riceve da mattina a sera e da sera a mattina, […] “si soffre veramente assai e di corpo e di spirito”.

                Però pensava che il loro fastidio lo avrebbe potuto preparare a supplizi e patimenti maggiori che potevan sempre provenire dagli uomini. E allora, sempre appellandosi alla propria formazione spirituale, Egli diceva a sé stesso: “Soffri, indegno! Se gli uomini e le zanzare ti uccidessero anche per solo furore e senza un vero diritto, riconoscili come strumenti della giustizia divina, e taci!”.

                Tra le altre pene, una volta che venne trasferito allo Spielberg, lo privarono degli occhiali e dei pochi libri da cui traeva conforto.
Gli tolsero perfino una forchettina di legno, il che lo costrinse a cibarsi direttamente con le dita. Ma, pur soffrendo ancor più di prima, si consolava con pensieri come questi che trascriviamo: “Dio è l’autore del tutto, tutto è in Lui e nulla fuori di Lui. Da Lui procede tutto. Umanità, individuo, creato, sono manifestazione di Lui, immagine di Lui. […] Dio è Bene, è Vero, è Poesia”.

                Nella sua ammirevole sincerità, il Pellico confessa pure d’aver talvolta pensato al suicidio. “Ma il suicidio mi sarebbe sembrato un piacere sciocco, una inutilità. La fune, il laccio, il pendere mi cagionarono sempre un ribrezzo invincibile”. E la sua fede radicatissima ebbe di nuovo il sopravvento.

                Ma c’è nelle “Mie prigioni” una pagina ancor più indimenticabile, e riguarda l’altro protagonista, Piero Maroncelli. Un tumore che aveva al ginocchio sinistro peggiorò tanto che si dovette procedere all’amputazione della gamba. Senza alcuna anestesia, “il malato fu fatto sedere sulla sponda del letto, e al di sopra del ginocchio fu stretto un legaccio, segno del giro che doveva fare il coltello. Il vecchio chirurgo tagliò, tutto intorno, la profondità d’un dito. […] Il sangue fluiva a torrenti dalle arterie, ma queste vennero tosto legate con un filo di seta. Per ultimo si segò l’osso. Maroncelli non emise un grido. Quando vide che gli portavan via la gamba amputata, le diede un’occhiata di compassione, poi, voltosi al chirurgo operatore, gli disse: ‘Ella m’ha liberato da un nemico, e non ho modo di remunerarla’. V’era, in un bicchiere sopra la finestra, una rosa. “Ti prego di portarmi quella rosa”, mi disse. Gliela portai. Ed egli l’offerse al vecchio chirurgo, dicendogli: “Non ho altro da presentarle a testimonianza della mia gratitudine”. Quegli prese la rosa e pianse. Solo dopo due ore, portato in tutta fretta dalla città, arrivò del ghiaccio, che fu deposto presso il taglio da cui era stato reciso l’arto.

               Quali grandi anime, queste che primeggiano ne “Le mie prigioni”! Accomunati da numerosi tormenti, anelavano alla pace, sempre confidando nella bontà di Dio e aspirando di ritrovarsi per sempre - come si esprime Silvio Pellico - “in un luogo dove tutte le ire degli uomini cessano”, là dove “alla fine venissero accolti un giorno, finalmente placati, anche coloro che non ci avevano amato”.

               In conclusione, questo libro di modesta mole è da raccomandare a tutti perché lo leggano. Ricchissimo di considerazioni morali e spirituali, dalle sue pagine si effonde “un grande amore per la giustizia, una grande tolleranza, una grande fiducia nella virtù umana e negli aiuti della Provvidenza, un sentimento vivissimo del bello in tutte le arti, una fantasia ricca di poesia, tutte le più amabili doti di mente e di cuore”, che inutilmente cercheremo, forse, in tanti altri volumi.
 

P. Raimondo Marco Sorgia op.
 

Arresto di  Silvio Pellico e Pietro Maroncelli. Quello del primo, avvenuto il 13 ottobre del 1820,

e dipinto da  Carlo Felice Biscarra, nel  1822. .  Saluzzo -Cuneo-, Museo Civico Casa Cavassa

 

 

1 : Silvio Pellico, è stato detto, “è l’uomo di un solo libro, Le mie prigioni, nel quale, attraverso la narrazione commovente per sincerità e candore, appare il suo grande cuore di cristiano che, tra le sofferenze più atroci, trova in se stesso la forza di rassegnarsi e di perdonare” (G. A. Pellegrinetti, Le Pleiadi”).
 

Silvio Pellico nacque a Saluzzo nel 1789. Nel 1809 si stabilì a Milano come segretario del conte Porro Lampertenghi. Nel 1820 fu arrestato dal governo austriaco, processato e condannato a morte: dopo 8 anni allo Spielberg fu graziato. Morì a Torino nel 1854.

...............

Silvio Pellico conobbe Foscolo a Milano, giovanissimo, tramite il fratello Luigi, attorno al 1810 e divenne uno dei suoi più fedeli amici e collaboratori. Nel 1815, al momento di partire per l’esilio, Foscolo affidò al giovane piemontese un baule contenente i suoi manoscritti e documenti personali. Il carteggio tra i due fu molto intenso fino all’arresto di Pellico, nel 1820, e alla detenzione di questo presso la fortezza dello Spielberg, dove scrisse il suo libro più famoso Le mie prigioni. Pellico cercò di ottenere invano la collaborazione di Foscolo al “Conciliatore”, la rivista espressione del romanticismo milanese, della quale il giovane piemontese era uno dei più fedeli animatori. Per lo più ostile al movimento romantico per l’eccesso di teoria e per la critica nei confronti dell’antico, Foscolo, in una lunghissima lettera al Pellico (East-Moulsey 30 settembre 1818, Ep. VII, pp. 383-395), esprime le sue perplessità sulla rivista; egli si dimostra soprattutto scettico sulle possibilità di vincere l’ostilità e la corruzione dell’ambiente milanese e di garantire al giornale una sufficiente autonomia politica. L’insistenza sulla connivenza tra letteratura e potere politico e sulle dinamiche deviate della società intellettuale milanese, anche dopo la caduta di Napoleone, ricorda la denuncia affidata poco tempo dopo alla Lettera apologetica. Pellico dedicò a Foscolo, dopo la sua morte, un poema in ottave, Ugo Foscolo, in cui tesse le lodi dell’amico, insistendo sulla sua integrità morale e sulle sue virtù e risolvendo poi l’encomio in un lamento per la mancanza di fede di Foscolo e in una preghiera affinché la sua anima possa essere comunque salvata da Dio. (Da http://www.internetculturale.it/directories/ViaggiNelTesto/foscolo/c11.html ) .

................

Silvio Pellico nacque in una modesta casa della città di Saluzzo, il 25 giugno 1789.
Era di costituzione gracilissima e crebbe alquanto debole e malaticcio. Aveva circa un anno quando si ammalò gravemente: il corpo non gli cresceva più, solo il capo si sviluppava, e questo lo fece diventare orrendamente storpio. Ma, grazie alle amorevoli cure della madre e all'intervento dei medici, riuscì a tornare fisicamente idoneo, anche se per tutto il corso della vita soffrì di problemi di salute.

Nel 1799 il padre trasferì a Torino il suo negozio di drogheria, ma, visto che gli affari non andavano bene, la madre si prodigò di trovare un impiego per Luigi (il primogenito) e Silvio.
Pellico venne quindi inviato in Francia, a Lione, presso un cugino, che gli disse che se lui avesse avuto un'inclinazione per gli affari, gli avrebbe fatto sicuramente fare fortuna; ma Pellico lasciò scritto nelle sue memorie: "Io preferiva la poesia, non ero sazio di leggere; sentii che la scienza de' negozi non m'avrebbe mai allettato".

In quel periodo in Francia splendeva l'astro del grande Napoleone, trionfava lo spirito libertino e nel campo del pensiero dominavano i filosofi illuministi.
Durante quel soggiorno Pellico poté notevolmente progredire nei suoi studi letterari, perfezionandosi nelle lingue classiche e imparando, oltre il francese, anche il tedesco e l'inglese.

Tornato in Italia a vent'anni, nel 1809 (dopo essere stato richiamato dal padre che aveva trovato un impiego a Milano), Pellico riscosse un notevole successo nei "salotti" letterari, visto che possedeva modi gentilissimi, ingegno pronto e vivace, e una cultura estrema.

Fu amicissimo di Vincenzo Monti, ma la sua predilezione andò sempre per Ugo Foscolo, un personaggio per il quale Pellico aveva un'ammirazione sconsiderata, sia come uomo che come scrittore.
Alla caduta del Regno italico, restituita la dominazione austriaca in Lombardia, il papà di Pellico tornò con la famiglia a Torino, ma Silvio decise di rimanere a Milano.

Nel 1816 riuscì a trovare un impiego stabile: doveva badare all'educazione dei due figli del Conte Porro Lambertenghi, compiendo, in pari tempo, l'ufficio di segretario della nobile casa (il compenso pattuito, oltre vitto e alloggio, era di mille lire annue).
Conservò questa carica sino al 13 ottobre 1820, il fatidico giorno del suo arresto.

Il palazzo del Conte Porro, ricco patrizio milanese, uomo coltissimo e generoso, promotore e fautore di molte libere iniziative, era in quel periodo il ritrovo degli uomini più insigni nelle scienze e nelle arti. Là il nostro Pellico cominciò a far conoscere le sue prime opere, e iniziò ad far suoi gli ideali di indipendenza e libertà che avrebbero caratterizzato il proseguo della sua vita.

La sua prima tragedia, la "Francesca da Rimini", esordì al teatro Re di Milano il 18 luglio 1815; fu subito un trionfo clamoroso e memorabile e venne in seguito applaudita anche Genova, Firenze e Napoli.
Il passaggio dell'Opera che riscuoteva più successo era quando veniva recitata un'infiammata ode all'Italia, che inebriava di patrio furore ogni individuo che doveva sopportare la dura repressione dell'invasore austriaco.

In quegli anni di feconda operosità il Conte Porro, con l'ausilio del fedele Pellico, riunì alcuni dei più insigni intellettuali e formò il primo nucleo del Il Conciliatore, un periodico dai fogli azzurri che, sotto le spoglie di giornale delle lettere, delle scienze e del progresso, in realtà aveva lo scopo di indire una guerra sorda, ma terribile ed efficace, contro la dominazione dell'Austria.

I governatori austriaci non tardarono a comprendere che quel periodico aveva una tendenza politica e rappresentava una precisa dichiarazione rivoluzionaria, e quindi prima gli contrapposero un altro giornale settimanale, L'attaccabrighe, con l'intento di svilire e denunciare gli intenti del Conciliatore, e poi, visti gli scarsi risultati, tramite la censura cominciarono a mutilare orrendamente i fogli del "Il Conciliatore".
La parte politica veniva infatti interamente cassata, la parte letteraria rivista in moltissimi aspetti.

Dopo un solo anno di vita "Il Conciliatore", vista la feroce repressione, dovette per sempre sospendere le pubblicazioni.
Tra gli scrittori di quel periodico, che agli occhi dell'Austria appariva ormai come un nemico delle istituzioni, era particolarmente divenuto sospetto alla polizia il nostro Pellico, in quanto redattore capo de "Il Conciliatore" e segretario e principale collaboratore del Conte Porro.



Negli ultimi giorni dell'ottobre del 1819, il Pellico fu chiamato negli uffici della Polizia e venne severamente ammonito dal Governatore, il quale gli vietò, pena la minaccia di espulsione dagli stati austriaci, di mandare alla Censura atti che riguardassero la politica.

Il Conciliatore quindi non c'era più, ma non per questo i suoi promotori rinunciarono a quei propositi e a quegli ideali che ne avevano ispirato la breve esistenza; essi cambiarono divisa e si diedero alla Carboneria.

Il Pellico, nonostante fino ad allora fosse stato contrario ai propositi delle sette segrete, decise di iscriversi anche lui alla Carboneria (la setta in assoluta più diffusa, in quegli anni gli adepti erano 360.000).
Lo scopo politico principe della Carboneria era quello di raggiungere l'indipendenza nazionale e la libertà civile, da conseguirsi con ogni mezzo, lecito e non.
L'Austria comprese subito quanto quella setta fosse pericolosa per la sua stessa esistenza nei territori occupati, e si mostrò feroce ed implacabile nel combatterla.

Fattosi carbonaro, il nostro Pellico si accinse subito ad un intenso lavorio di propaganda; proprio il giorno dopo la sua aggregazione alla Carboneria, l'Austria pubblicò il suo famoso editto contro gli affiliati a questa setta, minacciando pene atroci a tutti i cospiratori e a quelli che ancora non li avessero denunciati.

Il 6 ottobre del 1820 i governanti austriaci arrestarono (grazie all'intercettazione di una lettera compromettente) Piero Maroncelli, amico intimo, compagno d'avventure e di carboneria di Silvio Pellico.
Le rivelazione del Maroncelli portarono, il 13 ottobre del 1820, all'arresto e alla traduzione di Silvio Pellico nel carcere di Santa Margherita.

Di fronte agli inquirenti, il Pellico negò in ogni circostanza qualsiasi addebito, ma ciò non gli bastò per evitare la condanna.
Al termine del processo, Maroncelli e Pellico, come rei di alto tradimento, furono condannati alla pena di morte, che venne "clementissimamente" ridotta a venti anni di reclusione per il Maroncelli e a quindici per il Pellico.

Il 10 aprile 1822 i nostri giunsero nel durissimo carcere dello Spielberg (fino al 1851 prigione di stato austriaca).
In quell'orrida galera, con l'uniforme da galeotto (e sovente con una palla al piede), il soave cantore della "Francesca da Rimini" scontò otto anni della sua pena.
Della vita di privazioni, di fame, di stenti, di angherie e soprusi che condusse Pellico e gli altri prigionieri nello Spielberg rimandiamo ai suoi scritti (Le mie prigioni in testa) e alle sue memorie.

Afflitto da gravi infermità e dolori atroci, con un corpo già minato in giovane età, il Pellico sperò più di una volta di morire in galera per non soffrire più.

Nonostante tutto, il 1 agosto del 1830, a Silvio Pellico e Piero Maroncelli venne data la notizia della loro scarcerazione.
Tornato in famiglia, Pellico poté finalmente riabbracciare i suoi cari. Aveva da poco compiuto quarant'anni, ma sembrava ormai un vecchio cadente in preda ad un'invalidità permanente.



 

Pur se minato nel fisico, il nostro non aveva assolutamente abbassato la guardia e cambiato idea riguardo le sue posizioni patriottiche e libertarie, e questo fervore gli permise di scrivere nel 1834 uno dei migliori e più popolari volumi della nostra letteratura, Le mie prigioni, e diventare unanimemente uno dei più grandi patrioti di tutti i tempi.

Incredibile fu l'accoglienza fatta dal pubblico italiano e straniero a quel libro, al punto che in poco tempo se ne moltiplicarono le edizioni e le traduzioni in varie lingue d'Europa.
Nel libro non c'era nessuna pompa nelle forme, nessuna forzatura, niente bestemmie e insulti contro l'odiato invasore, ma il suo contenuto, semplice e descrittivo, fece più danni all'Austria di quanti ne avrebbero fatto interi eserciti.

Infatti Le mie prigioni, con le quali il Pellico non aveva mai pensato di assicurarsi l'immortalità, e di cui non previde certamente l'immenso effetto, riuscirono a rappresentare una rivendicazione per i cospiratori e una condanna terribile per l'Austria, la quale si affrettò a proibirne l'introduzione e la lettura nel Lombardo-Veneto, adoperandosi anche, sebbene inutilmente, presso il Vaticano, per far mettere all'Indice il famigerato volume.

Sia Giuseppe Mazzini che il Papa Pio IX vollero conoscere Pellico.

Nel 1850, Massimo D'Azeglio propose a Vittorio Emanuele II di insignire della Croce dell'Ordine di Savoia il glorioso martire dello Spielberg; ed il re, seguendo le orme del padre, che aveva assegnato al Pellico una pensione annua di 600 lire, accolse ben volentieri la proposta del suo Primo ministro.

La sera del 30 gennaio 1853, poco prima delle nove di sera, Silvio Pellico morì agonizzante nel suo letto.  

(Paolo Battisti, Da : http://www.viveresenigallia.it/index.php?page=articolo&articolo_id=127983 ,  l' 1-11-09 )

 

 

 

FINE

 

 

TORNA SU

Finestra sulla Letteratura

HOME

TORNA SU