IL LAVORO E' PER L'UOMO MA L'UOMO NON E' SOLO PER IL LAVORO

(Da: Francesco Totaro, Non di solo lavoro (Ontologia della persona ed etica del lavoro nel passaggio delle civiltà), Milano Vita e Pensiero, 1998; pp I-XII; 1-340; pp. 219-22) .

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                Il superamento della nozione del lavoro come un semplice fácĕre strumentale a un risultato esterno e la sua attribuzione anche al campo dell'ágĕre che persegue l'arricchimento della persona, conduce di conseguenza, a dare risalto nella Laborem Exercens, al concetto secondo cui l'uomo nel lavoro non produce o non mette capo solo a oggetti ma produce e forma anche se stesso e quindi, grazie al lavoro, diventa più uomo, cioè incrementa la sua umanità.

                Il lavoro perciò viene riportato in modo intrinseco alla sfera della persona 1) .

                Il significato di quest'ultima in rapporto al lavoro, precisa ulteriormente l'accezione del dominio nei confronti della terra di cui ci siamo già occupati. La persona è compresa come un essere soggettivo capace di agire in modo programmatico e razionale, capace di decidere di sé e tendente a realizzare se stesso 2) .

                Pertanto la persona si configura, potremmo dire, come circolarità tendenziale di teoria e prassi. La valenza etica del lavoro è strettamente collegata al fatto che l'uomo sia capace di atteggiarsi nei suoi confronti come persona, vale a dire come soggetto consapevole e libero e che decide di se stesso  3) .

                A questa argomentazione si collegano le affermazioni giustamente più note e maggiormente utilizzate dell'Enciclica: Il primo fondamento del valore del lavoro è l'uomo e prima di tutto il lavoro è per l'uomo e non l'uomo per il lavoro 4) . Si tratta di enunciati solenni che sono introdotti a salvaguardia di ogni riduzione materialista ed economicistica del lavoro a merce e ad anonima forza produttiva, in qualsiasi sistema economico tale riduzione abbia a determinarsi.

                L'applicazione di tali linee direttive e normative esigerebbe coerentemente -e a ciò l'Enciclica sembra invitare- una revisione profonda delle modalità storiche e storico-civili di organizzazione del lavoro nelle quali il soggetto non rimane libero e consapevole di sé  e non è insieme colui che programma e colui che realizza.

                La problematica che subito a ridosso dell'Enciclica si è imposta, a proposito dal riscatto del lavoro dalle sue forme oggettivate e mercificate, cioè dalle sue forme alienate, è se il lavoro, insieme alla rappresentazione storicamente concreta che se ne può avere,  sia in se e per se sufficiente a realizzare il salto qualitativo che lo conduca a essere espressione adeguata della persona. Viceversa il problema si può anche declinare dal lato della persona: chiedendosi se la persona può investirsi esclusivamente, agli effetti del conseguimento di sé, nella dimensione del lavoro.

                Per dirla in breve, le vicende attuali che coinvolgono i processi del lavoro e il loro vissuto, ci attestano con eloquenza che la trasformazione del lavoro, la quale deve certo avvenire nella sfera del lavoro e della sua organizzazione, non decolla se ci si affida semplicemente alle dinamiche endogene del lavoro medesimo e, più in generale, della dimensione produttiva. Il lavoro da solo non basta né a soddisfare l'intero spessore di realizzazione della persona né a determinare la propria doverosa trasformazione.

                Nell'Enciclica la problematica di ciò che oltre il lavoro, e che peraltro dal lavoro è richiesto per la sua riqualificazione intrinseca, rimane implicita.

                La latenza di questa problematicità spiega anche il credito che si accorda immediatamente al lavoro -lo si è già accennato sopra- quanto alla sua capacità di generare un'etica sociale, cioè atteggiamenti di solidarietà. Ora è fuori di dubbio che la storia del lavoro nei novant'anni trascorsi dalla Rerum Novarum sia stata una storia di movimenti di solidarietà che hanno saputo reagire efficacemente a condizioni di ingiustizia e di degradazione; e che bisogna adoperarsi affinché movimenti di solidarietà sorgano anche nel futuro. Quello che però è da mettere a tema è se i mutamenti di struttura, intervenuti nella fisionomia più recente del lavoro, siano tali da mantenere intatta la capacità di generazione della solidarietà (nelle forme universalistiche già note) o se non si debba mettere nel conto una difficoltà crescente a coagoli di azione solidale, nel mondo del lavoro, specie quando essa travalichi gli ambiti del gruppo professionale omogeneo e richieda sacrifici a beneficio di gruppi diversi o categorie più svantaggiate 5).

                In sostanza è urgente chiedersi se il lavoro, e quindi i soggetti del lavoro, secernano naturalmente atteggiamenti e disposizioni etiche oppure se le coordinate etiche dell'agire lavorativo non esigano punti di riferimento e motivazioni che trascendono la pura e semplice coscienza del lavoratore. La stessa propensione fondamentale ad assumere il lavoro come bene non solo per sé ma anche per gli altri, appunto come un bene comune e come un diritto di cittadinanza, esige una retta coscienza civile che superi il punto di vista del proprio lavoro (o del lavoro come bene di cui appropriarsi e da accaparrare ad esclusione di altri).

                La solidarietà nel lavoro (dei lavoratori) e con il lavoro (con i lavoratori) sembra oggi doversi reggere su un ethos (e un'etica) che non è la stessa prassi del lavoro a fornire automaticamente.

 

NOTE

 

1 : EV 7 / 1409-1414 (n.6). Questo aspetto è stato molto sottolineato da Rocco Buttiglione, L'Uomo e il lavoro. Rflessioni sull'Enciclica Laborem Exercens, CSEO, Bologna 1982 .

2: EV7 / 1410 (n.6) .

3: EV 7 / 1411 (N.6) .

4: EV 7 / 1414 (n. 6) .

5: Su questo tema vedi B. Sorge, Per una nuova solidarietà del mondo del lavoro. Contributo della Laborem Exercens, La Civiltà Cattolica 3174 (sett. 1982) pp. 473-85 .

 

 

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