FIRENZE CAPITALE D'ITALIA, BUZZURRI E FIORENTINI

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Finestra sul popolo aretino, toscano, italiano

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[Da: Guido Biagi, Passatisti (Il Babbo di Pinocchio C. Collodi), Firenze, La Voce, 1923, pp. 101-106], 

 

                Alla Firenze granducale, alla Firenze toscana che dal 1859 al '64 ebbe un proprio carattere, in quel suo primo entrare nella vita italiana, quando dopo l'annessione ottenne la nuova moneta e il sistema metrico-decimale, e la guardia nazionale con le sue frequenti parate, e i primi giornali indipendenti, e tutte le franchigie della libertà, successe la Firenze capitale che ebbe un periodo di vita fervida e rumorosa di soli sei anni

                Chi abbi come me, assistito alla demolizione della terza cerchia delle mura, e abbia veduto l'ingresso dei piemontesi chiamati Buzzurri e l'insediamento del Governo, chi ricordi l'apertura del Parlamento in Palazzo Vecchio, nel Salone dei Cinquecento che l'architetto Falconieri, con poco rispetto all'arte, trasformò in un'aula poco adatta alla nuova eloquenza, può chiamarsi fortunato di aver messo da parte un cumulo d'impressioni che anche gli anni e gli eventi successivi non valgono a cancellare. 

                Gli ospiti che a mano a mano giungevano da Torino eran fatti bersaglio alla critica mordace di coloro che nel giornalismo, nella letteratura e nella politica avevano qui un posto cospicuo e un'autorità di cui non eran punto disposti a spogliarsi. 

                Rammento la meraviglia che destarono fra noi i primi travets, che eran piovuti con la mutria e la serietà burocratica, e con le maniche di finetto, onde facevano sfoggio nel Palazzo delle Intendenze, sotto i portici di Po. I Fiorentini non li capivano, e spesso fingevano anche di non capirli, per prendersi gioco del loro dialetto e dei barbarismi che infioravano i loro dialoghi con le serve e con i bottegai. Le canzonature e le prese di bavero erano argomento di risa nei vecchi crocchi toscani, quando ancora la fusione de' nuovi ospiti con l'indigeni non era avvenuta. 

                Giuseppe Rigutini professore e accademico della Crusca, rimasto sempre aretino nonostante i molti anni di sua dimora fra noi, sfogava la vena epigrammatica contro il suo superiore Emilio Broglio , manzoniano fervente che la destra aveva mandato al Ministero dell'istruzione nel convento di San Firenze. Fior di trifoglio, / Da san Firenze s'è sentito un raglio,/ Era un sospiro del ministro Broglio. Ma la vena del Rigutini si sfogava anche contro la sinistra, che allora aveva un suo caporione in un ex-canonico di cui tacerò il nome: Don Pilon con guardo truce / Va gridando: "Io vo' la luce" / E al proposito fedele / Ruba intanto le candele. 

                La vita e la riputazione dei nuovi arrivati eran fatte segno ai più mordaci commenti. De' militari e della loro stupidità e grossezza di mente, circolavano curiose storielle. Citerò quella del muratore imbracato, che s'èra fatto calare da una finestra per riguardare una doccia, e che era tenuto sospeso da un canape affidato alle mani di un attendente. Questo sente suonare e dalla scampanellata arguisce che si tratta del suo padrone. Vorrebbe lasciare la fune per andare ad aprire. Il muratore lo scongiura di non lasciarla, l'altro insiste, e allora quel disgraziato sospeso gli dice: Raccomandami a qualche cosa. E l'attendente che non capisce il toscano, gli risponde: Ti raccomando a Dio. E lo lascia precipitare nel vuoto.

                Con quell'allegra filologia s'insegnava ai buzzurri la forza delle parole e la proprietà della lingua. Poi, a poco a poco, la fusione, l'amalgama degli ospiti con gl'indigeni, avvenne, mercè i frequenti contatti, le amicizie che si strinsero, le merende e le scampagnate fatte a Fiesole o nei dintorni, con la complicità del fiasco paesano e dei vinetti frizzanti e bene abboccati che parevano innocentissimi e che spesso mandavano gli incauti a digerire una sbornia solenne sotto la tavola. 

                Quei sei anni della tappa, nonostante Custoza, Lissa e Mentana, furono de' più lieti e giocondi. I piemontesi avevano cominciato ad abituarsi alle nuove usanze, alla nuova pronunzia, alla nuova gente che li accoglieva e di cui canzonavano la parsimonia, gli scaldini ed i moccoli. Si divertivano anche a contraffarli, ad aspirare il c senza riuscirvi, a disputare sulla proprietà dei vocaboli e sulle questioni di lingua. Eran i tempi in cui a Edmondo De Amicis si attaccò la smania di far quegli studi sul vocabolario che l'hanno per ultimo condotto a scrivere il volume su l' Idiona Gentile.

                La famosa lettera del Manzoni al Broglio su l'unità della lingua, rinfocolò le dispute, che Pietro Fanfani, considerato allora come una grande autorità, mantenne vive con i suoi libretti e periodici frasaioli. Anche nei giornali d'allora, nei fogli politici, cotesta inutile logomachia, trovava il suo sfogo, molto più che nel giornalismo locale, prevalevano i toscani. 

                La Nazione aveva per direttore, dopoché Alessandro D'Ancona v'ebbe fatto le prime armi, Piero Puccioni, che venuta la capitale, quando Ubaldino Peruzzi, ministro, si ritirò dal giornale, cedè il posto all'onorevole Raimondo Brenna, a cui poco dopo successe Giuseppe Civinini. La Gazzetta del Popolo diretta dal dottor Picchianti, La Gazzetta d'Italia fondata dall'avvocato Carlo Pancrazi e il Pepe Buono che fu per breve tempo contrapposto allo zenzero dei demagoghi, avevano con loro gli scrittori più noti e più cari, fra i quali conviene ricordare Pietro Coccoluto Ferrigni, il più bel tipo di giornalista di quel periodo, narratore dalla inesauribile vena, che scriveva i suoi articoli con una nitida calligrafia livornese e guerrazziana, senza mai un pentimento e una cancellatura, come se altro io gli e li dettasse.

 

FINE

 

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