ALLUVIONE A FIRENZE, DESCRITTO DAL SINDACO PIERO BARGELLINI

(Da: Piero Bargellini, Pagine di una vita, Firenze, Vallecchi, 1981, pp. 131-43)

6-9-06

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Piero Bargellini (Firenze 1897-1980)

 

                Che piova in autunno non fa meraviglia, e gli ultimi giorni d'ottobre del 1966 furono insistentemente piovosi; addirittura diluvianti i primi di novembre.

                Il tre, sotto la pioggia erano stati fatti i preparativi della vigilia per il giorno celebrativo della Vittoria italiana e delle Forze armate.

                Bandiere nazionali, tricolori, s'alternavano lungo le vie e sulle piazze, con bandiere comunali, bianche gigliate.

                Scendeva la sera e pioveva. S'accendevano i primi lumi e pioveva. Faceva notte e pioveva. L'acqua scrosciava dentro le gronde, sgorava i palazzi, lavava i marciapiedi, facendo specchio alle vetrine illuminate, ma la circolazione delle automobili lustreggianti di pioggia e dei pedoni con impermeabili e ombrelli sgocciolanti, non accennava a diradarsi.

                Pioveva e tutto quello sguazzo faceva pregustare il tranquillo riposo del successivo giorno di festa.

                Come cantava l'acqua dentro le doccionate di latta! Non era ancor giorno e il sindaco venne svegliato dallo squillo del telefono. Il Questore chiedeva un sopraluogo al Ponte Vecchio, da parte dei tecnici comunali, per accertarne la stabilità. La piena era salita, nella nottata, fin quasi a tapparne gli archi, e si temeva che il vecchio ponte, rintronato dalle mine di guerra, dovesse cedere.

                Il sindaco cercò invano di mettersi in comunicazione coi tecnici del Comune. Uscì per rendersi conto personalmente di ciò che accadeva. La moglie volle seguirlo.

                Di piene, a Firenze, se n'èrano vedute, d'autunno e di primavera, più o meno spettacolari, più o meno dannose, mai però calamitose, almeno da un secolo in poi.

                Di solito il livello del fiume saliva lungo le pile dei ponti, fin quasi a lambire la sommità dell'arco. La massa dell'acqua scorreva veloce, gonfia e melmosa, portando in collo botti, bidoni, legname vario ed alberi interi rapinati nella campagna.

                Poi cessata la pioggia, l'onda di piena scemava, l'acqua tornava a fluire, via via scendendo lungo le pile riemerse, e lo spettacolo del fiume gonfio e rigoglioso tra le sponde cittadine cessava, mentre i lungarni si sfollavano di curiosi.

                La mattina del quattro novembre, invece, i curiosi erano pochi nel livido crepuscolo folto ancora di pioggia. L'alba stentava ad uscire di sotto il tetro coltrone di nuvole, e l'Armo in piena, più che vedere, si udiva rombare, tra lo scroscio perpetuo della pioggia.

                Un gruppo d'ombre sotto il portico di testata degli Uffizi, era rivolto al ponte Vecchio, che fremeva e tremava quasi fosse preso dal ribrezzo della morte vicina.

                Non si parlava o si parlava basso, come al capezzale di un moribondo, al quale non è più possibile recare soccorso, e, sospesi, si attendeva l'estremo evento oppure il sollievo della crisi superata.

                Da troppo tempo le cateratte del cielo erano aperte e ormai l'acqua avrebbe dovuto venir meno. Invece seguitava a diluviare. La piena gonfiava ancora, premendo contro i parapetti di mattoni.

                Sul Lungarno delle Grazie, dagli interstizi della spalletta, sprizzavano getti d'acqua, che allagavano il marciapiede. Sembrava un piacevole gioco di fontanine, da raccontarsi il giorno dopo come una curiosità.

                Dinanzi alla Biblioteca Nazionale, dove il parapetto faceva un dente, accadde qualcosa di peggio. Una falda d'acqua straripò, scivolando di alto, a cascata, e imboccando rapidamente il sottostante Corso de Tintori. Sarebbe finita certamente in Piazza Santa Croce, per un improvviso e imprevisto lavaggio.

                E peggio ancora accadeva, di li a poco, sul Lungarno Acciaioli, dove la spalletta non resse alla pressione, e fu travolta dall'acqua, ch'empì la piazzetta del Limbo fatta a conca, e allagò il quartiere dei Santi Apostoli.

                Sembrava che ormai l'Arno si fosse sfogato abbastanza, e si attendeva che, ritirandosi dentro le spallette, riabbassasse la cresta della piena.

 

                Il giorno s'alzava livido, dopo la notte spossante. Col tempo s'alzavano anche le nuvole a grembo, nelle quali però si producevano ancora sfrangiature di pioggia.

                Specialmente oltre l'incontro e oltre Pratolino, lo sfondo dell'orizzonte s'incupiva sempre di più. Sembrava che una nuova notte dovesse succedere, immediatamente, a quella passata, senza una pausa di sollievo e di luce.

                Tra lo scroscio della pioggia e il rombo delle onde, il fiume gonfiava sempre di più, e quando superate definitivamente le spallette, traboccò da ogni parte, si sperò che ormai s'assopisse placato.

                Non fu così perché nuove masse d'acqua fangosa giungevano, galoppando vorticosamente.Tutto era ormai fiume. Ma dove una volta si distingueva l'alveo fra i muraglioni a retta dei Lungarni, la corrente era più pazza, ed alberi, e mobili e masserizie passavano or sopra or sotto le onde, sbattendo violentemente contro i ponti sommersi.

                Nel traboccare oltre le spallette, l'acqua si diramava, non in affluenti ma in defluenti, tra le alte sponde delle case, correndo le strade e invadendo le piazze. La città murata rivelava insospettati dislivelli, che provocavano impetuosi correnti e gorghi vorticosi.

                I quartieri di Bellariva e di Gavinana, di Santa Croce e di San Niccolò, di Santa Maria Novella e di San Frediano, formavano come tante conche di contenimento, dove però la piena non si sedava, ma rapinava sempre più rabbiosamente.

                Da prima, al dilagare dell'acque fluviali si unì il rigurgito delle fogne, che fece saltare i tombini, dai quali uscivano getti verticali, sobbollenti di mota e via via sempre più chiotti.

                Poi alla pressione sotterranea si aggiunse sempre più prepotente l'ondata del fiume, che nonostante l'allagamento della città e della campagna non s'infiacchiva e seguitava a mescere come se l'otre, nel quale nelle antiche allegorie s'appoggiava la figura dell'Arno, capelli e barba fluenti, fosse davvero inesauribile.

                Nei quartieri più bassi e più poveri (gli antichi quartieri artigianali, dove l'acqua dell'Arno, derivata con pescaie, canali e gore, aveva fornito in antico l'energia idraulica a buon prezzo) l'acqua aveva già fatto gran danno, e i tentacoli fluviali non accennavano a fermarsi.

                Non era da prima, che un rivolo subdolo e silenzioso, lambente il lastricato delle strade. Un ciangottìo sommesso segnava il suo arrivo alle cosidette Bocche di Lupo, dentro le quali momentaneamente spariva.

                Riapparso con un lieve gorgoglio, da rivolo si faceva pozza, salendo l'orlo dei marciapiedi, fino a toccare le soglie delle porte più basse, oltre le quali, l'acqua invadeva, tranquilla e silente, pianerottoli e corridoi.

                Gli abitanti la vedevano, con sorpresa mista a curiosità, far capolino sotto gli usci di casa, e spandersi sull'impiantito. Credevano poterla fermare con un pugnello di segatura, mentre per cautela, arrotolavano i tappeti e sollevavano gli scendiletti.

                Dovrà pur fermarsi , dicevano e pensavano, nell'affacciarsi alle finestre, per vedere a che punto fosse giunta la mala bestia , ma nel ritrarsi stimavano opportuno mettere le seggiole sui tavolini e le poltrone sui letti.

                Dovrà pur fermarsi , dicevano e pensavano, riaffacciandosi ai davamzali, dai quali si poteva quasi toccare l'ondata fiottante del fiume, che ormai spazzava i tavolini, entrava nei cassettoni e si distendeva sui letti.

                Dovrà pur finire! E invece l'acqua aumentava, correndo sempre più velocemente, precipitandosi nelle cantine, riempiendole a forza e mettendo in pericolo le volte. Gonfiava, sollevando le porte sui cardini, facendo danzare i mobili galleggianti, invadendo sempre nuove strade e lontane piazze.

 

                Fortunatamente, proprio in virtù del giorno festivo, la popolazione civile si attardava nelle case. I bambini che gli altri giorni uscivan per tempo in strada, per avviarsi a scuola, quella mattina poltrivano sotto le coltri calde. Gli operai invece di uscire in bicicletta o per la prima corsa del tram, facevano la doccia in casa, mentre fuori scrosciava la pioggia sulla città. Gl'impiegati e i professionisti, in veste da camera guardavano attraverso i vetri appannati. Le donne avevano fatto la spesa la sera avanti, sotto l'acqua, in previsione del giorno festivo.

                Tutti dicevano o pensavano: Cesserà . Anche il sindaco lo pensava, ma in attesa che ciò avvenisse, volle far sentire la propria voce, per mezzo della radio.

                Il suo messaggio non ebbe toni drammatici né accenti patetici. Invitò tutti alla calma e in più, infatti, erano già calmissimi. Consigliò di rimanersene in casa, dove infatti i più non pensavano nemmeno di muoversi. Esortò i casigliani dei piani superiori di aiutare ed ospitare quelli dei piani più bassi, e i più l'avevan già fatto, tirando le masserizie alluvionate su per le trombe delle scale. Chiese infine, ai proprietari di natanti d'approdare in Palazzo Vecchio, per i soccorsi più urgenti.

                Poco mancò che per uscire dagli uffici della rai non avesse bisogno anch'egli d'una barca, perché mentre parlava, l'acqua cominciò a correre in via De' Cerretani, e a stento poté tornare in Palazzo Vecchio, davanti al quale c'èra acqua alta come a Venezia, ma dietro, in via De' Leoni, correva un torrentaccio impetuoso, che risaliva con furia Via della Ninna e Via de' Gondi.

                Dentro la città storica, le strade medioevali erano tornate ad essere fossati di castello e gore di mulino e cateratte aperte. La massa d'acqua sfondava i portoni, trascinava i mobili, svelleva le mostre dei negozi, faceva spanciare saracinesche, depredando magazzini e laboratori.

                I diversi torrenti limacciosi si scontravano nei trivi, facevano mulinello nelle piazzette.

                Il sindaco rimasto assediato dall'acqua in palazzo Vecchio, si pentiva di aver chiesto i natanti, mettendo a repentagli i generosi accorsi, che rischiavano il naufragio ai piedi del Biancone, figurazione di Nettuno dall'inutile tridente.

                Dovrà pur cessare , diceva anch'egli ridotto alle finestre, come tanti altri cittadini dei quartieri alti, sotto i cui occhi erano via via spariti i mezzi militari, rimasti affogati nei cortili delle caserme; le carrozze dell'azienda tranviaria, sommerse nei depositi; le automobili in sosta risucchiate dalla corrente.

                Spettacolo macabro offrivano le molte bare da morto galleggiante sulle acque. E addirittura angosciosa era la vista dei cadaveri travolti dalle onde, parte vestiti, ma i più completamente nudi.

                Chi poteva pensare, in quei momenti, che a Firenze ci fossero tante bare vuote nei negozi di Pompe Funebri, e che i negozi di mode avessero in mostra tanti manichini ? L'acqua ne aveva fatto preda entrando nei depositi e nelle botteghe, e ora ne faceva mostra, nella sua corsa lungo le strade e nei vortici delle piazze.

                Sul mezzogiorno ci fu una leggiera schiarita fra le nuvole aggrondate e negli animi maculati. Stà per cessare, si disse e si pensò.

                Invece riprese a piovere fittamente e insistentemente. L'Arno seguitò a crescere distendendosi nei quartieri più lontani, dove pareva impossibile che l'acqua potesse giungere.

 

                Quando, cessata la pioggia, l'acqua cessò di salire, Firenze giaceva sommersa in un lago di quaranta chilometri quadrati di superficie, con una profondità che in qualche punto s'avvicinava ai cinque metri, come in Via delle casine, nel Quartiere di Santa Croce.

                Lì c'èra stato l'episodio più drammatico della giornata. Una povera paralitica, sola, era stata legata dai soccorritori alle sbarre della finestra inferriata, in attesa che un fabbro segasse i ferri, o che l'acqua scemasse. Invece salì implacabilmente lungo il corpo della vecchia aggrappata alle sbarre, mentre il parroco di san Giuseppe, dall'altra parte della strada ridotta a un impetuoso torrente, recitava le preghiere dei moribondi, fino a che l'acqua non gorgogliò sinistramente nella bocca spasimosa della vecchia, rimasta per tutta la notte un cadavere legato alla triste finestra.

                Quando l'acqua cessò di crescere, non smise però di correre, di sfondare e di rapinare. Si produsse il fenomeno inverso dell'allagamento mattutino, perché l'Arno, ritirando i suoi tentacoli limacciosi, creava un risucchio via via sempre più forte.

                Ci fu un momento di stasi, al colmo dell'alluvione, poi il calo dell'acqua quasi insensibile; lentissimo da principio, con movimento accelerato poi. L'acqua correva a ritroso, sempre più rapida e rapinosa, e dalle strade uscivano come tanti affluenti, che mescevano alla rinfusa il materiale rubato ai magazzini, ai negozi e alle case.

                Soltanto nei quartieri più bassi, l'acqua restò a far laguna, riassorbita lentissimamente dalle fogne, ostruite da detriti d'ogni genere e dal fango.

                All'or di notte il silenzio più lugubre gravò su tutta la città spenta nelle luci e nelle voci, sgomenta e smarrita, stramazzata sotto l'improvvisa calamità.

                Ma fu un momento solo di smemoratezza e quasi di svenimento. Lo spirito cittadino si riebbe immediatamente, al pensiero che Palazzo vecchio era ancora lì, con la Torre d'Arnolfo diritta nel cielo. Anche se tutto il resto della città, coi suoi monumenti, i suoi palazzi e le sue chiese, fosse sparito o bloccato dall'acqua e dal fango, l'idea che Palazzo vecchio era sveglio e vigile dava ai fiorentini la speranza del soccorso e la certezza della ripresa.

                Sulla città ridotta a palude, in quella lunga notte d'angoscia, l'unica cosa che si salvò, non macerata dall'acqua né lordata dal fango, fu la coscienza civica, e la fiducia in quel palazzo quasi simbolico, che tutti i fiorentini vedevano nitidamente, con gli occhi della mente, fermo ed ardito, al di sopra del marasma.

                In mancanza d'ogni altra comunicazione, i messaggi venivano passati da finestra a finestra, da strada a strada da quartiere a quartiere, tutti diretti a Palazzo Vecchio.

                Erano voci dolenti e fidenti, che chiedevano aiuto, ma senza pianti né lamentele, e ripetevano, in echi successivi, la medesima invocazione.

                E le voci passavano, sulle acque limacciose, nel silenzio della notte. echeggiavano lentamente, quasi solennemente, sospese a note alte, ma non stridule; salivano dal basso, scendevano dall'alto, giravano le cantonate, attraversavano le piazze con un brivido d'angoscia, giungevano a Palazzo vecchio, tornavano indietro in tutte le direzioni.

                Palazzo vecchio aveva ricevuto. La Torre d'Arnolfo era come un'antenna capace di captare tutte le voci della città. Quanto a rispondere, non con le parole, ma con i fatti, era un'altra tormentatissima cosa.

                I volenterosi, rimasti fin dalla mattina accanto al sindaco, provavano con lui il rovello dell'impotenza.

                Firenze in ventiquattrore, era tornata ad essere la città medioevale di ottocento anni prima: una città assediata, assetata, affamata, rapinata, priva di luce, di riscaldamento, di comunicazioni, d'assistenza sanitaria, di servizi publici, di mezzi privati; una città -si credeva- piena di cadaveri umani e di carogne bestiali; messa a sacco dal fiume impazzito e crudele, che ancora rombava tornato nell'alveo, e ansimava per la prodezza compiuta.

                Per le sale dell'antico Palazzo de' Priori vagavano ombre simili a fantasmi, tra fiammelle spiritiche di candele, uscite, non si sapeva come, da un magazzino dell'economato, insieme con un pacco di biscotti e con una bottiglia di cognac.

                Un gruppo di rifugiati, quasi abbrutiti dal freddo e dalla paura, facevano circolo, accoccolati nel Salone dei Cinquecento, dove avevano tentato d'accendere un fuoco di carte.

                Nella Sala dei Duecento, sul pancale, in disparte dagli altri, si tenevano stretti due sparuti sposini salernitani, in viaggio di nozze, sorpresi dalla piena durante la visita della città.

                Nel ricetto accanto, era stata organizzata una piccola infermeria, con le brande dei vigili di servizio, per coloro che si erano prodigati come sommozzatori e salvatori fino all'esaurimento.

                Nudo, avvolto in coperta, serrava i denti, assiderato, e reticente, un giovane detenuto, fuggito dalle Murate e giunto in palazzo vecchio sopra un portone scardinato dall'acqua e portato via.

                Nella Sala di Clemente VII° sedeva una specie di Stato maggiore, al quale giungevano quei tali messaggi, passati di voce in voce, attraverso la città sveglia, ma tramortita.

                L'urlo ossessivo d'un forsennato o dissennato reiterava nella notte, da una casa di Via de' Leoni, l'assurda e nello stesso tempo perentoria richiesta, che scoteva io nervi già tesi e non lasciava tregua: O sindaco, bisogna fare qualcosa !

                L'alba del cinque s'alzava grave e pigra, dopo la lunga notte insonne e dolente, quando, proprio per tentare di far qualcosa, il sindaco uscì dal Palazzo Vecchio, solo, e attraversò la Piazza della Signoria sopra un repugnante e sdrucciolevole tappeto di fango.

 

FINE

 

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