IL PRETE SECONDO GRAZIA DELEDDA E MARINO MORETTI (Anima assente e sacrificio tra le opacità del crepuscolo)

Dalla collana "I Quaderni Colombiani" che raccoglie gli scritti dell'arcivescovo di Milano dal 1963 al 1979 - cardinale dal 1965 - curati in proprio pro manuscripto dalla parrocchia di Santa Margherita in Caronno Pertusella (Varese) pubblichiamo un estratto dal numero 38 (luglio 2009) intitolato Il sacerdote nella letteratura del primo Novecento. Un primo estratto è apparso nell'edizione de "L'Osservatore Romano" dello scorso 7 agosto.

di Giovanni Colombo

(Da : vatican.va , il 12-8-09)

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Marino Moretti (Cesenatico -FO-,  1885-1979) e Grazia Deledda (Nuoro 1871 - Roma 1936)

 

               Poche parole basteranno a delinearci la posizione del sacerdote nelle narrazioni di Grazia Deledda. Poche parole non già perché nei romanzi della scrittrice di Nuoro siano rari i preti, che anzi - e purtroppo - sono moltissimi, ma per altri motivi che ne scemano l'interesse. Il primo è che il suo folklorismo provinciale è una lente deformatrice, che ci presenta i sacerdoti in forme caricaturali più che in figura di realtà vissuta. Un altro motivo, il più forte, è che la Deledda nel prete considera quasi solamente l'uomo. Il carattere sacerdotale ha solo la funzione di creare complicanze psicologiche sentimentali, nuove e interessanti. Ricordiamo, due romanzi che hanno per protagonista un prete:  Elias Portolu e La madre.
 

                Elias Portolu (1903), giudicato il capolavoro, è la storia di un giovane sardo che, uscito da un penitenziario, s' innamora perdutamente della moglie del fratello e ne ha un bambino. Poi, per disperazione e per altre circostanze fattosi sacerdote, non sa resistere alla sua passione mentre assiste il fratello ammalato.
 

                Morto il fratello, la cognata, che continua ad amarlo, diviene la fidanzata di un altro; ma il bambino, colpito da un male irrimediabile, muore. Elias non ha neppure la consolazione di prodigarsi con quella tenerezza che il suo cuore di padre esige, poiché nessuno deve accorgersi che il bambino è suo. Sente però che quella morte è un castigo del peccato, e nell'angoscia di quella perdita accettata come espiazione ritrova un soffio di pace.

 

                 La madre (1920) è la storia di un giovane parroco, ribelle al proprio voto di castità e fatto schiavo di una donna. Sua madre se n'è accorta, lo spia, ne prova una mortale ambascia e impone al figlio di non rivederla più. Ma la donna sedotta e seduttrice minaccia uno scandalo, se il prete l'abbandona:  griderà a tutto il popolo, in chiesa, il peccato del parroco. E in chiesa, mentre il prete durante la celebrazione trema di paura, e la donna fatale vi assiste pronta per la sua vendetta, la madre muore d'orrore. Un orrore superstizioso per la dannazione del figlio e per il disonore, ma non l'orrore del sacrilegio. Niente da fare. La Deledda ha una religione immanente, più che trascendente, e l'anima del sacerdozio cattolico le sfugge completamente.
 

                 In più spirabil aere ci trasporta La vedova Fioravanti (1941), il romanzo di Marino Moretti che a suo tempo suscitò in campo cattolico pareri disparati. Qualche critico - ricordo il Molteni su "L'Italia" - protestò fieramente contro la deplorevole profanazione del sacerdote; qualche altro - il Casnati in "Vita e Pensiero" - ne diede un giudizio benigno, se non addirittura lusinghiero. La verità, se il romanzo è letto con preparazione e giusto intendimento, è più vicina al secondo che al primo critico.
 

                 Darne il riassunto è impossibile. Se vi avvicinate a questo come a ogni altro dei romanzi morettiani per sunteggiarli (...) sono formati di minime cose:  di fatterelli, cioè, che a uno a uno sono insignificanti - forse insulsi - ma che composti insieme dall'arte dell'autore creano una suggestione spirituale, esprimono uno stato d'animo. Ecco, potremmo dire che l'azione del romanzo è il trapasso dei diversi stati d'animo della vedova Fioravanti sotto l'influsso del figlio prete, don Dorligo.
 

                Questa donna era un temperamento esuberante, smaniosa di vivere; aveva sempre bisogno di dedicarsi a qualcosa, piena com'era di invadenza e di inquieti desideri. "Le mancava, purtroppo, il senso del soprannaturale e dell'eterno", è detto precisamente in un punto. Con una simile natura, contenersi negli argini del dovere non le tornava agevole:  ai tempi in cui viveva il suo Pompeo, autorevole macellaio, ella era straripata in alcune relazioni adultere. Anche allora si confessava e comunicava - e come no, era la madre di un seminarista - tre o quattro volte per semestre, "soltanto - osservava, non senza qualche punterella romagnola, l'arciprete don Libero Fiumana - non è venuta da noi". "Non è venuta da voi? o da chi va?", chiedeva con animo teso il marito. E il buon arciprete:  "Da chi deve andare? Dai reverendi padri cappuccini. Sì, lo so, è già capitato; brave parrocchiane che senza una ragione al mondo, di punto in bianco... Un torto fatto alla parrocchia no? Le maggiori simpatie le godono i frati perché più bonari, meno istruiti e, si dice, anche più indulgenti... Si dice!". Ecco un giudizio sulla differenza tra confessori preti e confessori frati, e anche un'impressione sulla gelosia dei preti per la supposta o reale invadenza dei religiosi:  giudizio e impressione da romanziere, s'intende, che pure meritavano d'essere rilevati.
 

                Ma torniamo alla vedova Fioravanti. Rimasta dunque vedova, la signora Mitelda, ancora troppo giovane e piacente con tutta quella vita che le ribolliva nel sangue, sarebbe scivolata verso chi sa quali precipizi se non avesse avuto un figlio, dapprima seminarista e poi sacerdote. Era il pensiero e la presenza di lui che le teneva le redini. "Se non ci fosse stato lui, non avrebbe proprio vissuto".
Cercava di occuparsi di mille cose che riguardavano il suo don Dorligo. Gli riempiva le stanze di bigiotteria devota:  gli mise su uno studio-ufficio in cui ella faceva un po' da domestica, da madre, da segretaria e anche da direttrice; brigò di procurargli una brava clientela in casa e in chiesa, di creargli occasioni per ben figurare.
 

                Così, sempre col pensiero del suo prete, non senza tentennamenti quella madre illudeva la giovane donna ch'era in lei e che rallentava troppo a sfiorire. Nel tempo in cui il suo don Dorligo rimase coadiutore a San Mauro in Fiume, lontano da lei, non tardò a sentire che quell'assenza era per lei una debolezza. Cercò l'amicizia di un pescivendolo e sarebbe caduta:  ma apertosi d'improvviso l'armadio, "la vista delle pianete le ricordò il figlio prete e il voto di castità di costui":  di colpo trovò la forza di sottrarsi. Un pensiero, forse inavvertito, dovette attraversarle l'anima in quella circostanza:  "Come potrà il mio don Dorligo così giovane a mantenersi diritto e fedele al suo voto, se sua madre cade?".
 

                Don Dorligo era un caro pretino, delicato di coscienza e a un tempo ingenuo. Così delicato che non gli piaceva recitare il breviario senza indosso la sua veste da prete. Sua madre, poi, si accorgeva che faceva i fioretti alla Madonna:  mortificava gli orecchi proibendosi d'ascoltare alla radio una vellicante melodia; mortificava il palato rifiutando a tavola della frutta gustosissima; mortificava gli occhi chiudendo di colpo un libro illustrato. La madre provava rabbia davanti a queste privazioni, che sentiva come irragionevoli ferite alla gioia di vivere; e forse le provocavano un torbido rimorso, ella che era abituata a tutte le concessioni. Don Dorligo intanto proprio con questi piccoli atti di devozione - della preghiera sacerdotale fatta con rispetto e dei fioretti alla Madonna - accumulava una forza da leone per l'ora della lotta, e l'accumulava anche per sua madre, ch'era sempre una fragile donna. E l'ora tremenda non tardò.
 

                Una giovane, miracolata di Lourdes, stufa dell'aggravio che quel prodigio le aveva finora imposto col dovere della buona condotta, s'innamora follemente di don Dorligo, il quale non sospetta nulla tanto è candido; al più, nei colloqui con lei ha sentito nella sua natura virile un indistinto piacere, nella natura dico e non nella coscienza, che neppure l'ha avvertito e perciò non ne ha rimorso. L'ha percepito però molto chiaramente la madre, da donna qual era molto esperta e vissuta. A lei non sarebbe spiaciuto un idillio sentimentale per il suo Dorligo; ma la miracolata aveva detto di volerlo addirittura sposare:  era troppo. Per l'idillio sentimentale ci stava a indulgere, perché sentiva in quei momenti d'aver bisogno ella stessa di quella medesima indulgenza, e di una più grande ancora. Sì, aveva deciso di non resistere più:  quella notte don Dorligo avrebbe dormito accanto alla sperduta chiesa della Crocetta per essere pronto il giorno appresso a celebrare a quei pochi contadini, e quella notte aveva dato appuntamento al suo pescivendolo.

 

                All'avvicinarsi dell'ora del peccato, l'assale il pensiero del figlio prete, sente che il suo destino è legato a quello di lui:  "O io dipendo da lui, o lui dipende da me", e chi cadeva prima determinava la caduta dell'altro. Allora va a confessarsi dai Cappuccini. Discesa la notte, il pescivendolo è lì alla porta. Ma ella garbatamente disinvolta non lo lascia entrare, non deve cedere per non trascinare nella sua caduta don Dorligo; deve resistere perché l'altro resista. Al pescivendolo chiede soltanto una macchina; un presentimento la spinge a volare nella notte alla chiesa sperduta della Crocetta, dove forse il suo prete aveva bisogno di lei.
 

                  Proprio là, nella solitudine notturna, l'aveva raggiunto la miracolata, l'aveva tentato e aggredito con le forbici; ed egli per difendersi aveva dovuto venire a una colluttazione, corpo a corpo e rovesciarla sul divano svenuta. La madre, sopraggiungendo, vede brillare la giovinezza fiera e pura del suo don Dorligo. Da quella notte comincia la saggezza spirituale della vedova Fioravanti. Il sugo della storia è dunque questo:  l'influsso del figlio sacerdote sorregge e salva la madre; il sacrificio quotidiano della madre per reprimere le torbide irrequietudini del sangue, sorregge e salva il figlio. "La vita, mamma - dice don Dorligo l'ultima sera del romanzo - è sacrificio:  ciascuno di noi si sacrifica per qualcuno, e qualcuno anche per tutti. Comunque, meglio sacrificarsi che sacrificare, almeno per noi sacerdoti".
 

                  In giro a don Dorligo si muovono molti altri preti, ciascuno fatto un po' alla sua maniera, ma tutti buoni e sinceri servi del Signore. Nessuno fa cattiva figura, né a sé né al sacerdozio, se non forse un pochino il prete rabdomante di San Mauro in Fiume, ch'era sempre in giro coi signori e trascurava il suo ministero.
 

                  In conclusione, La vedova Fioravanti è un romanzo edificante da consigliare a tutti? Questo non mi sentirei di affermarlo. Altro è sostenere che Moretti ha scritto un romanzo informatissimo degli ambienti ecclesiastici, delicato e penetrante in più di un punto nell'anima sacerdotale, e altro è dichiararlo un libro edificante per tutti. Chi non è preparato, può venir urtato dall'aria svagata e scanzonata con cui Moretti racconta; è il suo stile e il suo animo crepuscolare. A tutti, poi, disgusta la compiacenza dell'autore nel rasentare gli orli dell'abisso.

 



(©L'Osservatore Romano - 12 agosto)

 

 

FINE

 

 

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